Doroty, nel Mago di Oz, diceva: nessun posto è bello come casa mia. Ma dov’è casa? Cosa significa casa?
In questi giorni mi sono trovata a riflettere sul significato che ciascuno di noi dà a questa parola, tanto semplice e familiare, quanto in fondo complessa, se solo ci soffermassimo a riflettere sui sentimenti che la accompagnano.
Al termine di questa lunga estate, agli sgoccioli di questo strano e difficile anno, e nel mezzo del cammin della mia vita, con il cuore a pezzi, diviso tra due città, tra angosce e speranze, tra follia e tranquillità, tra vecchio e nuovo, mi ha colto di sorpresa un quesito che definirei esistenziale: dov’è casa? O meglio, cos’è casa?
Secondo il vocabolario Treccani casa è una “costruzione eretta dall’uomo per propria abitazione; più propriamente, il complesso di ambienti, costruiti in muratura, legno, pannelli prefabbricati o altro materiale, e riuniti in un organismo architettonico rispondente alle esigenze particolari dei suoi abitatori”.
Ma quanto si nasconde invece di più profondo, di più grande, di più intimo dietro questa parola? Davvero qualcuno pensa che casa sia il semplice insieme delle mura che ci accolgono? Allora cosa c’è di più? Di cosa parlava Doroty quando diceva “nessun posto è bello come casa mia”?
Una prima risposta sembrerebbe semplice: casa è dove ci sono coloro che amiamo. Vero. Ma come la mettiamo quando le persone che amiamo non sono nello stesso luogo?
Allora forse casa è la città dove siamo nati e cresciuti, dove siamo diventati ciò che siamo oggi, quel luogo che ci portiamo dietro e che ci distingue, anche fosse solo per l’inflessione della voce. Vero. Ma cosa dire allora della città dove viviamo e dove abbiamo costruito e vissuto pezzi importanti della nostra vita?
Potremmo dire quindi che casa è dove ci sentiamo felici. Ma quanti di noi si sentono felici solo e soltanto in un posto? E quando non siamo felici? Sentiamo forse in quel caso di non avere una casa?
Allora forse è vero, casa è la nostra dimora, il luogo dove ci sono i nostri vestiti nell’armadio, il nostro nido, il nostro rifugio, le pareti che ci accolgono e ci proteggono da tutto quello che c’è fuori (e l’esperienza del COVID19 e del lockdown ha spazzato via ogni interpretazione metaforica di questo concetto, rendendolo vivo, concreto, plastico). Vero. Tutto vero, tutto giusto. Ma che dire allora di chi quattro mura non le ha? Chi ha scelto di spostarsi continuamente per lavoro ad esempio. Gli zingari. O i senzatetto. Dovrebbero forse cancellare la parola casa dal loro vocabolario?
La questione sembra complessa, ed il ragionamento si fa ingarbugliato. E se fosse semplice invece?
Proviamo così: casa è tutto e tutto è casa. E ciascuno di noi ha il proprio tutto.
Casa mia è Palermo. Casa mia è Milano. La vista di Montepellegrino dalla terrazza di via Veneto. Il mio divano, il mio letto e le mie tende in pandan con i cuscini del soggiorno. Le lacrime di mia madre quando parto. Le nostre conserve di salsa di pomodoro già riposte in dispensa. Il mio mare. La Madonnina che si staglia nel cielo grigio e azzurro. Matteo che mi accoglie, dopo tre settimane di distacco, con un sorriso di quelli che si sfoggiano solo nelle grandi occasioni. Il disordine del suo appartamento. L’ordine del mio. Le “stigghiole”. Diletta. Simona. Il mio blog. Ustica. La bandiera dei Democratici di Sinistra appesa nella mia stanzetta. La mia stanzetta ed il suo lettino ad una piazza. Il tram numero 27 e l’autobus numero 73. I cornetti del bar di via Lomellina. Bianca. Bianca. Bianca. Ed il suo tatuaggio adesivo di “Cicì e Cocò” che vorrei non mi si cancellasse dal braccio, ma che di sicuro non si cancella dal cuore. Le passeggiate in montagna, faticose e bellissime. Il terzo piano senza ascensore. Le mie ricette. Via Libertà. Corso Buenos Aires. Carla, che da quando vive a Reggio Emilia vedo troppo poco. I miei fornelli. Federica, la mia vicina, e la crostata che mi ha lasciato dietro la porta per darmi il bentornato. La pianta che ho resuscitato, appollaiata sopra il frigo di Matteo. La logorrea di mio padre, che ho certamente ereditato. Via Lascaris. Via Imera. Via Negroli. Via Pianel. Piazza Don Mapelli. Lo studio del mio psicoterapeuta. Il mio psicoterapeuta. Lo stabilimento balneare La Torre. L’Enoteca Butticè. Il corriere di Amazon. L’Esselunga. La spesa di Cortilia. Il suono delle onde. Il rumore della pioggia. L’orto, Vittorio ed il burraco della domenica. Chiara, mia sorella. Mamma. Papà. La mia vita da emigrata.
Certo, sono troppe cose per essere messe tutte in uno stesso contenitore, tutte tra le stesse quattro mura, tutto sotto uno stesso tetto. O forse no. Perché alla fine quel contenitore, quelle mura, quel tetto, sono io! Quindi casa sono io. La mia casa. Io. Io sono la mia casa. La mia casa sono io. Io. Noi. Noi stessi siamo la nostra casa. L’unica scatola capace di contenere tutto. Tutti gli amori. Tutti i luoghi, Tutte le gioie e tutti i dolori, Tutte le ferite e tutti i sogni. Tutti i momenti e tutti i sentimenti. Tutti i ricordi e tutti i progetti. Tutte le mura, le pareti, i tetti. Tutte le case. Perché la casa siamo noi.
Allora, se è così, va bene cara Doroty, sono d’accordo con te… nessun posto è bello come casa mia!
Ora so che se deciderò ancora di andare in cerca della felicità, non dovrò cercarla oltre i confini del mio giardino… Perché se non la trovo là… Non la troverò da nessun’altra parte!
Doroty, Il mago di Oz
Farò la zuppa di ceci come dici tu, però non leggerò più quelle belle cose che hai scritto sulla “casa” perché mi hai fatto piangere!
Grazieee! in effetti forse il post era un po’ strappalacrime 😉
Dorothy: Io, io credo che non devo tornare solo per rivedere zio Harry e zia Emma. Ora so che se decidero ancora di andare in cerca della felicita non dovro cercarla oltre i confini del mio giardino, perche se non la trova la, non la trovero mai da nessun’altra parte. E cosi vero?